“Lavoro da trent’anni e non ho mai avuto un anno senza crescita del fatturato”. Il signor Paolo Fedegari é, con il fratello, al vertice di un gruppo di successo, fondato dal padre che in origine era un carpentiere. Le sue fabbriche esportano in 85 Paesi del mondo l’80-90% della produzione.
Non stupisce dunque che Confindustria l’abbia chiamato sul palco, a commento di un Rapporto, quello sugli Scenari Industriali presentato ieri, che analizza la posizione italiana nelle catene del valore globale, insomma il ruolo di quelle imprese che, producendo e vendendo beni che servono alle fabbriche soprattutto fuori dai confini, trainano la produzione industriale e il “miracolo” dell’export italiano. Stupisce di più l’unica frase di segno negativo pronunciata dall’emozionato signor Fedegari, che ha detto che non ha alcuna intenzione di delocalizzare, che ringrazia il ministro Calenda per il corposo risparmio fiscale sugli investimenti innovativi, che certo migliori infrastrutture servirebbero ma soprattutto “a noi qui mancano acqua, luce e gas”.
Gli stabilimenti di Fedegari sono ad Albuzzano, Pavia. Qualcosa non torna più, nella narrazione antica dell’economia italiana. Così come non torna, dice il rapporto di Confindustria, la percezione che abbiamo del nostro declino: nella classifica mondiale dei produttori manifatturieri, l’Italia si trova al settimo posto; e in quella europea al secondo, dopo la Germania.
“Quanti lo sanno?”, ha chiesto retoricamente il direttore del Centro Studi di Confindustria Luca Paolazzi, per poi esporre tutte le componenti della parte “mezza piena” del bicchiere: la crescita del 3,2% all’anno, dal 2010, dell’export manifatturiero; la ripresa del valore aggiunto industriale sul Pil, passato dal 15,7% del 2015 al 16% del 2016; l’aumento del 1,5% dell’occupazione dal 2015 ai primi mesi del 2017.
La parte mezza vuota sta nel confronto con il 2007, anno precedente la crisi; con questi ritmi il recupero del Pil avverrà solo nel 2012, mentre non ci sono previsioni sul recupero del numero degli occupati, dato che i posti persi, a fronte dei 60.000 guadagnati nell’ultimo periodo, sono 800.000. E se la ripresa dell’occupazione non ha tenuto il passo di quella della produzione, lo si deve alla “selezione brutale” (parole del ministro Calenda) avvenuta tra le imprese nella crisi (centomila aziende in meno) e all’aumento di produttività all’interno delle sopravvissute.
Quanto alla localizzazione territoriale del nuovo mini-miracolo, questa è in ordine sparso: siamo passati dal traino del Nord-Ovest a quello del Nord-Est, poi a quello della dorsale adriatica; ma adesso la mappa dell’industria è fatta di puntini sparsi in tutta Italia.
Tutto ciò lo si deve al posizionamento che ha preso la produzione italiana nelle catene mondiali del valore: per cui i prodotti che vanno meglio non li vedremo mai, perché sono freni dentro macchine altrui, o fusoliere di un aereo. E’ un bene o un male? Dipende.
Anna Giunta, economista di Roma Tre, ha sottolineato punti di forza e di debolezza di questa collocazione: per spingere i primi, ha detto, serve una politica industriale che non dia incentivi a pioggia ma scelga, con discrezionalità.
Sergio De Nardis, dell’Ufficio parlamentare di bilancio, porta numeri “più ottimisti” di quelli di Confindustria, con un’analisi della produttività che smentisce le lamentele sulle imprese troppo piccole: usando i dati di Banca d’Italia che comprendono tutte le imprese e non solo le grandi, viene fuori che è proprio tra le minori, grazie alla selezione post-crisi e alla tecnologia, che sta crescendo la produttività.
L’industria uscita dalla crisi è molto diversa da quella che ci era entrata, lontana dai punti di partenza ma vitale ove agganciata alla domanda estera, e proprio per questo esposta ai venti della concorrenza e alle tempeste di una globalizzazione che ora, da Trump a Brexit, ha potenti oppositori. Ma alla quale – è il messaggio di Viale dell’Astronomia – dobbiamo restare agganciati.
Roberta Carlini